“Il genio è saggezza e gioventù” di Bruno Rosada
“Il genio è saggezza e gioventù” scrisse Edgard Lee Masters: un equilibrio difficile perché l’errore è in agguato, ma l’errore non fa disappunto se è un vero errore, un vagabondaggio lungo i meandri della malcerta verità, anzi conferma la saggezza della gioventù. Altro è quando si erra per imitazione, anzi si pecca per imitazione: ma questo tipo di errore possibile, frequente nei giovani (un errore che subito li distrugge come giovani e li rende paurosamente vecchi) si guarda Fabrizio Vatta, che coniuga saggezza artistica e gioventù morale, oltre che anagrafica.
All’uscita del Novecento il problema è serio: tutto il secolo ha peccato per imitazione ed ha perso la sua gioventù. Ci si domanda come e perché è stato quello che è stato: perché abbiamo continuamente giocato per novantanni ad imitare l’innovazione.
Fabrizio Vatta ha avuto due maestri, di altissimo livello, che rappresentano le due opposte estremità dell’esperienza artistica del secolo che sta per morire, Emilio Vedova e Luigi Tito.
La mediazione dialettica operata da Vatta sembra essere un’espressione che arricchisce le prospettive ideologiche, un discorso di per sé correttissimo: una felicissima mano, una elegante capacità figurativa hanno consentito a Fabrizio Vatta fino a poco tempo fa una dimensione realistica che superava l’immagine nello sforzo acuto di penetrazione psicologica, quale appare ammirabilissima in una lunga serie di ritratti. Ma l’influenza di Vedova per quanto fortemente dissimulata, non consente elusioni, l’assoluzione ritenuta, dialettica in verità non è, se non per comodità di analisi storica: in effetti, all’interno del singolo quadro l’immagine fa da contesto allo sfondo più che lo sfondo non faccia da contesto all’immagine, come nelle figure della Gestalt-psicologye. Questa reciprocità di ruoli è forma simbolica e non consente ulteriori soluzioni: ogni quadro è fortemente dilemmatico, il ruolo dello spettatore per autorità del pittore si trova limitato ad una sola scelta possibile: o così o così, tertium non datur. La pittura di Vatta come il mondo sublunare di Platone, si libra tra l’essere e il nulla, anzi tra il nulla e l’essere, perché l’essere rimane sempre un approdo certo e possibile. Parlando della sua simpatia per Francis Bacon, l’effetto culturale che questo grande pittore esercita su di lui, Vatta professa di amare “la morte”, ma precisa che ama “la morte che diventa vita”, non rinnegando quindi l’aspetto positivo che appare chiaramente nella luce delle sue opere…
Così l’esistenza di stempera in presagi allusivi come la giacca viola di “Dentro la tua anima”, o come la traccia della poltrona nell’ “Isola del silenzio”, o nel ritratto di donna de “L’indovina”. C’è sempre in questi quadri un cenno, un riferimento, un’ammiccamento all’altro da sé, all’essere che c’è al di là di questo non essere che non c’è.
“Figure” di Gaetano Salerno
Stralci di universo ricomposti sulla tela con apparente casualità e deferenza, dove tutto scorre lento e inesorabile, operando una sintesi del reale che mischia vorticosamente i pigmenti e la polvere di carboncino per mettere in scena un’antologia sociale rubata alla letteratura esistenzialista del dopoguerra; figure alla deriva, debolezze e solitudini di umanità abbozzate, epiloghi incerti e indefinibili di personaggi colti nel mezzo di azioni stereotipate e banali, testimoniano invece l’energia creativa che pulsa nonostante tutto, oltre l’assurda accidia di esistenze immobili e ripetitive, pittoricamente delineate con parsimonia di azione e di cromia. Sottraendo toni ai colori del mondo e svuotando ogni visione della limpida artificiosità accademica, fusa nello spazio denso dell’aria vitale emerge sempre, centrale e predominante, la figura, punto di partenza e di arrivo di questa esperienza artistica che ricerca spunti veristi anche quando sembra cedere all’astratto.
Figure in cerca di approdo, prigioniere di fitte trame psicologiche, rasentano solitudini estreme in questi palcoscenici realisti e tragici in cui la decostruzione del mondo concorre alla costruzione dell’incertezza, offrendosi inermi agli sguardi, in attesa di un giudizio che sembra piombare implacabile su volti e su corpi scherniti dalla luce – radente nei primi e primissimi piani – e stagliati sui campi lunghi delle diagonali che, per contrapposizione, avvicinano l’illogico al concreto eliminando le distorsioni percettive.
I ricercati tagli fotografici delle composizioni conferiscono immediata credibilità e drammaticità a queste immagini che comunque non cessano di alludere al fantastico e all’onirico; il colore forma e deforma, individua e cancella. In questo binomio realizzativo disegnare una traccia per poi occultarla trasmette l’essenza sfaccettata della vita: assorbire un dato reale, una suggestione fisica per poi esploderla nella materia che ne amplifica esponenzialmente il sentimento di base, ammantando ogni angolo della sfera visibile della sua essenza con pasta cromatica fluida e dinamica, scrive la teologia di un mondo occulto in divenire in cui esserci, figurare, rappresentata la sola antitesi al nichilismo. L’evidente debito della pittura di Francis Bacon si traduce così nell’ossessione alla vita in virtù della quale solo noi, figure umane calate in un contesto disumano, diveniamo i soggetti delle nostre ossessioni, personaggi dalle pelli vibratili, straziati non nella carne ma al di là di essa, fuori o dentro, nei drammi della psiche celati da stati di calma apparente che l’artista non può osteggiare ma solo estremizzare con strati di colore spessi e violenti e con direttive centrifughe. Conducendo al limite la tensione fino al punto in cui emerge il tormento e la pulsione sfiora la tragedia vengono così bandite spirituali evanescenze allusive in virtù della concretezza terribile e vera di mondi in disfacimento nei quali ogni visione è impasto magmatico, ogni microcosmo frazione del tutto, ogni sentimento forza creatrice che nella poetica pittorica di Fabrizio Vatta si rifiuta di giacere inespressa.
Gaetano Salerno è critico d’arte e direttore di Segnoperenne.it